Mercoledì, 14 Luglio 2021 07:26

IL DISCEPOLO: CHIAMATO PER LA MISSIONE

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Non si va in missione perché si è in crisi personale o per urgenze pastorali...

 All’origine di ogni missione c'è una chiamata; prima Gesù chiama e poi manda o, forse, le due cose arrivano sempre a completarsi, fino a coincidere.

Se ci pensiamo bene, un missionario è veramente tale quando è chiamato dal Signore e, allo stesso tempo, uno è chiamato nella misura in cui è missionario, si apre agli altri e non trattiene nulla per sè. Anche noi siamo missionarie perché Lui ci ha chiamato: non si va in missione perché si è in crisi personale o per urgenze pastorali. 

            Il verbo impiegato in greco “proskalein” indica proprio il desiderio di Gesù di chiamare a sé i suoi per poi inviarli: questo è ciò che costituisce il mandato missionario, la fonte sorgiva del nostro andare.

            Un altro aspetto molto bello di questo invio è che Gesù non manda degli individui da soli, non invia individualmente, non segue le leggi del mercato, ma li manda “due a due” (in effetti, se li avesse mandati singolarmente, avrebbe potuto raggiungere più persone e più luoghi, quantomeno 12 rispetto a 6, si sarebbe comunque trattato del doppio).

            Possiamo sicuramente scorgervi un riferimento al libro del Deuteronomio (in particolare Dt 17 e 19), in cui viene presentata la norma secondo la quale una testimonianza, per essere ritenuta attendibile, doveva essere di almeno due persone; ma non possiamo di certo limitarci a questo, Gesù non manda i suoi “due a due” per osservare semplicemente una norma. Gesù invia i discepoli a coppie anzitutto come segno di comunione nella missione, per mostrare la novità nei rapporti che il Regno stabilisce tra quanti gli appartengono.

            Le relazioni sono alla base di qualsiasi comunicazione e, quindi, anche dell’annuncio del Vangelo, che avviene tra scambi continui fra più persone. L’errore che spesso rischiamo di commettere è quello di considerare Gesù, nella sua umanità, più come un semplice “individuo” che come persona. Non possiamo né dobbiamo mai dimenticare che il Verbo, per farsi carne, si è fatto bisognoso di un preciso rapporto di comunione e di amore, quello tra Maria e Giuseppe. Dio, per incarnarsi, ha scelto una famiglia, un luogo intriso di relazioni. Questo vale anche per noi: nessuno di noi potrebbe comprendere la portata del Vangelo senza una comunità, senza cioè quel bel tessuto di relazioni che Gesù crea in chi incontra. A riguardo facciamo grata memoria della nostra forma di vita, ricevuta dal Signore, che consiste nel “vivere in fraternità il vangelo” (cf. Cost. Art. 2). 

            Per poter andare “due a due” c’è bisogno di un ingrediente fondamentale, quello dell’umiltà. Essere umili significa infatti riconoscere profondamente che abbiamo bisogno degli altri, e smetterla di illuderci di bastare a noi stesse. Gesù ci manda due a due perché possiamo crescere nell’umiltà di accettare che qualcuno si prenda cura di noi, si occupi di noi, ci voglia bene. Anche Gesù si è lasciato amare dai suoi amici, ha accolto inviti a pranzo, ha mangiato quanto gli hanno offerto. Che bello questo tratto così umano di Gesù: aveva degli amici e in Lui non esistevano rapporti neutri. 

            L’amicizia vera con Gesù anzitutto, intrisa di vangelo, ci lascia sempre noi stessi e ha il potere di realizzare in noi una conversione continua. Le relazioni più autentiche, vissute alla luce della Parola, non ci trasformano in chi non siamo, non ci rendono diversi, ma ci fanno diventare semplicemente più noi stessi, più pienamente figli secondo il disegno del Padre (quando san Francesco ha ammansito il lupo di Gubbio, il lupo è rimasto lupo, non l’ha trasformato in un agnello). Tutto questo ci dice che la nostra credibilità deriva soprattutto dalla realtà relazionale che viviamo nella quotidianità.

Gesù, mandando i suoi “due a due” ci sta dicendo che non esiste missione senza la comunione. Per cui la chiamata missionaria è per sua stessa natura comunionale.

            Dobbiamo impegnarci, specialmente noi persone consacrate, a combattere l’individualismo, quella solitudine intesa come isolamento, la tentazione di credere che noi siamo solo coloro che possono dare qualcosa e non ricevere. Non è questa la santità a cui siamo chiamate: il santo non è colui che non ha bisogno di nulla e solo dà, perché questa è semplicemente una forma velata di superbia, ma è santo colui che riconosce di aver bisogno degli altri e si lascia amare. Così facendo le nostre relazioni non saranno più dettate da protocolli da seguire o peggio ancora da regole da osservare, ma diventeranno relazioni che si fanno “incontro” tra prossimi, cariche di bene e regolate solo dalla grazia. Guai a noi se saltassimo le relazioni, se non le vivessimo pienamente: rischieremmo di annunciare un Gesù disincarnato, privo della carne.

O Dio nostro Padre,

nella forza trasformante del tuo Spirito,

disponi il nostro cuore,

distrutto da mille occupazioni e desideri,

a prepararsi nel cammino 

di comprensione e di condivisione,

nel quale la tua forza vuole condurci

e il tuo Figlio vuole coinvolgerci.

Abbiamo profondo bisogno di un cuore umile,

capace di accogliere e divenire 

“luogo” dell’incarnazione del tuo amore.

Abbiamo urgente necessità

di assumere nel Tuo Figlio e con il Tuo Figlio

il dramma della passione

per gustare la gioia di vivere. Amen                         (Madre Roberta)

Letto 587 volte Ultima modifica il Giovedì, 29 Luglio 2021 07:56

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