(Mc 6, 8-9)
LA MISSIONE HA UN VOLTO: “NON PRENDERE PER IL VIAGGIO NIENT’ALTRO...”
Lo stile che i missionari sono chiamati ad avere, è caratterizzato da una grande sobrietà e povertà.
Cerchiamo di comprendere la portata di questi due versetti: anzitutto Gesù dice cosa bisogna portare, solo un bastone e i calzari. Nel dire questo, specifica anche dei divieti, che cosa non si può portare:
- pane – sacca – denaro - due tuniche
Che forza questi divieti! Nemmeno il pane... ciò che è essenziale per vivere, ciò che Gesù ci ha insegnato a chiedere nel Pater (“dacci oggi il pane di ogni giorno”), non si può portare. Il pane non si prende, si domanda, perché il pane è dono. Cambia di molto la prospettiva...
Vediamo prima di tutto le sole due cose che possiamo portare: il bastone e i calzari. Intravediamo, come in filigrana, il brano presente nel libro dell’Esodo, in Es 12: il racconto della Pasqua, dove si precisa che questa festa va vissuta con i calzari ai piedi e il bastone in mano, proprio perché è la Pasqua dell’Esodo, dell’uscita, del cammino. Una festa sulla strada, una Pasqua per la strada.
Gesù sembra volerci dire che il cammino del discepolo è sempre un cammino pasquale, un intrecciarsi di venerdì santo e di Pasqua, in cui l’ultima parola è e rimane sempre una parola di vita. E’ come se ci dicesse che la nostra missione è il prolungarsi della Pasqua sulle nostre strade, per cui è anche un itinerario che passa dal deserto, come quello dell’Esodo, carico di fatiche e di prove.
In questo viaggio dobbiamo prendere solo ciò che serve per percorrere questo esodo: ecco perché solo il bastone e i calzari; sono le uniche cose in più, rispetto a noi, che ci aiutano a camminare. Non solo: se dovessimo percorrere una strada semplice, piana, senza ostacoli, in realtà non ci servirebbe il bastone e nemmeno i calzari. Il fatto che Gesù ci abbia detto di prenderli può stare a significare che il cammino da percorrere è lungo e difficile, sarà sassoso (occorrono i sandali) e anche in salita (serve il bastone).
Il cammino missionario non è una passeggiata in riva al mare, ma è un cammino faticoso, spesso segnato dalla salita. Come non pensare in questo momento al “faticare” tanto caro a Madre Caterina? E’ un verbo che sta alle nostre origini, lo troviamo anche nell’art. 2 delle Costituzioni, dove si delinea la nostra forma di vita:
Art. 2 - La nostra forma di vita, secondo il carisma-spiritualità della Fondatrice, è vivere in fraternità il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo, "Sposo crocifisso nudo, e abbandonato" e in Lui essere mandate a "faticare per la conversione di popolo oltremare", nella fedeltà alla Madre Chiesa, sulle orme di S. Francesco, vero amico e imitatore di Cristo.
E’ anche un invito a non ritenere le difficoltà, le incomprensioni e i vari ostacoli, come qualcosa da evitare, sassi che ci fanno inciampare e basta... Le fatiche non devono in alcun modo scoraggiarci, perché se così fosse è perché abbiamo perso di vista il cammino pasquale. Gesù ci chiede di camminare coi sandali e il bastone perché sa che la vita dei suoi si giocherà, come la sua, prevalentemente su di una strada sassosa e anche ripida.
La strada diviene dunque luogo messianico, di rivelazione, di incontro con la Salvezza. La nostra casa è la strada: se usciamo dal contesto figurato, significa che la nostra vita è sempre un cammino, dove non ci sono degli arrivati e neppure chi non è ancora partito... non c’è nessuno fuori da questa strada e su questa strada siamo chiamati a raggiungere tutti, specie i più deboli ed emarginati.
Gesù non ci chiede di portare altro: è un bagaglio molto povero di mezzi umani perché Lui sa che questi ci condurrebbero forse ad amare più la casa della strada, la comodità rispetto all’avventura... Non possiamo correre il rischio di addormentarci spiritualmente, non c’è spazio per l’immobilismo del cuore. Gli strumenti umani possono certamente aiutare, ma se diventano prioritari allora finiscono per togliere le ali all’entusiasmo missionario, rischiando di privarci della parresia tipica del Vangelo e della libertà di chi annuncia.
Gesù vuole che siamo leggeri... per essere più spedite, per non avere le mani ingombrate da borse e zaini, libere per toccare le ferite e pronte per abbracciare i fratelli. Abbiamo molto da camminare ed anche velocemente... c’è l’urgenza di portare il Vangelo, non le nostre cose.
La missione ha dunque il volto di chi non si accasa, non pianta tende, ma accoglie ogni luogo come dono (cf. Art. 84-85, relativi al voto di obbedienza); la strada per ogni discepolo diviene casa, così che nessuno abbia mai a sentirsi solo lungo il cammino. Questo aspetto emerge molto nei versetti 10 e 11:
10E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Gesù dice ai suoi di accogliere pure l’ospitalità, ma senza che questa diventi un legame di dipendenza; dice infatti di rimanere in una casa per un periodo limitato di tempo e poi ripartire. Bisogna restare liberi da tutto ciò che può mettere un freno al nostro cammino e questo è da intendersi in modo molto ampio: dobbiamo porre attenzione a tutte quelle realtà che non esprimono libera ospitalità, ma solamente dipendenza. Il discepolo “appartiene” al Regno, la sua vita è dedita all’annuncio del Vangelo, non possono esserci altre appartenenze.
Gesù insiste molto sulla sobrietà dei mezzi perché la missione vera ha solo un volto, il Suo: il missionario sa che deve portare Lui, per cui la missione non può avere nemmeno il volto dei discepoli e neppure di chi li ospita. Tutto è dono e diviene strumento di bene. Perché questo unico volto di Cristo si possa cogliere, noi dobbiamo fare di tutto perché possa affiorare sul nostro, altrimenti ogni sforzo è vano. Ecco perché è di primaria importanza l’incontro con gli altri, l’ “a tu per tu” con le persone, il faccia a faccia in cui l’altro possa cogliere nei nostri sguardi, nel nostro sorriso, nel nostro modo di parlare e di agire che è Gesù all’opera in quel momento in cui li incontriamo. Proviamo a chiederci: quando qualcuno suona ai nostri campanelli, o bussa alla porta della nostra camera, o semplicemente ci incontra per i corridoi o per la strada, quale volto incontra, il volto di chi? Che cosa traspare dal nostro volto?
Negli ultimi tempi a volte si corre il rischio di far trasparire più il volto di un’azienda, di un’associazione, di una struttura o di un’opera. Certamente esistono anche le opere, ma non possono avere il primato nella nostra vita. Non possiamo infatti dimenticare che la prima missione non è mostrare quanto sia bella, efficiente e redditizia una nostra scuola o come funzioni bene un nostro ospedale o un lebbrosario, quanto piuttosto far sentire le persone amate da Dio.
Al centro dell’evangelizzazione dovrebbe esserci la dimensione spirituale dell’incontro: l’altro ha bisogno di sentirsi atteso, considerato, accolto... Ricordiamo che il Padre fa sorgere il sole su tutti, non agisce in base al merito, ma in base al bisogno e tutti abbiamo bisogno di essere amati.
Solo il missionario testimone riesce a bussare alla vita degli altri e raggiungere il loro cuore. Occorre una vita giocata sul serio... un’esperienza coinvolta con quella di Gesù, impastata della sua vita e della sua Parola.
Infine, nel v.11, vi è un’indicazione molto forte per i discepoli:
11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero,
andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi
come testimonianza per loro».
Il gesto di scuotere la polvere era un gesto molto in uso presso i giudei: lo facevano tutti i giudei osservanti ogni volta che entravano nella terra d’Israele, provenendo da terre pagane. Prima di entrare nella Terra Santa, i giudei scuotevano la polvere dai calzari, per non contaminare la loro terra, visto che quella polvere apparteneva a una terra pagana. Anche Gesù dice ai suoi di fare la stessa cosa, ma vi è un forte cambio di prospettiva. Per Gesù non esiste una terra pagana in sé, ma una terra lo diviene quando ha espresso il rifiuto del Regno, il rifiuto del Suo Amore. Una terra può divenire “pagana” perché ha rifiutato la presenza di Dio, ma poi c’è sempre spazio per la conversione. L’annuncio non è un gioco, non si può essere dei meri spettatori; c’è qualcosa di molto importante di mezzo, di esistenziale, che porta delle conseguenze: l’accoglienza o il rifiuto. In quest’ultimo, però, non deve accadere nessun giudizio per quanti non hanno accolto, nessuna condanna per chi ha rifiutato, ma addirittura Gesù pronuncia un “pro” (“come testimonianza per loro”). Nessuno sia escluso, nessuno è sottratto alla misericordia infinita del Padre, nessuno è tolto dal Regno